martedì 27 agosto 2013

Riprendere l'attivita fisica dopo il parto







Il percorso che segue la donna durante una gravidanza è un’avventura meravigliosa ed i cambiamenti a cui va incontro sono stati ampiamente trattati per capire come affrontarli dal punto di vista psicologico, alimentare, sportivo ecc. Troppo spesso si tende però a dare meno importanza (forse perché si ritiene sia tutto più facile) alla fase post parto. In realtà, all’istruttore di sala viene maggiormente chiesto cosa fare dopo la gravidanza, per ritornare in forma, piuttosto che durante la gravidanza, dove i primi tre mesi sono sempre molto delicati e anche nel periodo successivo è consigliabile dedicarsi solo a una leggera attività fisica. 
Non bisogna dimenticare come il ritorno alla forma giochi un ruolo fondamentale per il ritrovamento dell’autostima e del massimo equilibrio psico-fisico; è infatti consolidato il momento difficile che quasi tutte le mamme passano subito dopo il parto, dei mille dubbi che le assalgono, del sentirsi troppe volte depresse, non all’altezza, non fisicamente desiderabili; con tutte le energie proiettate verso la loro nuova dimensione di donna e mamma. 
Diversi studi attestano come la ripresa di un’attività fisica funzionale e divertente (e non troppo intensa) porta ad un netto calo dei casi di depressione post parto. Logicamente tutto ciò che si è fatto negli anni precedenti alla gravidanza (stile di vita, alimentazione, attività fisica) viene ritrovato in positivo dopo il parto. Una sportiva avrà molte meno difficoltà a tornare in forma, ma certamente avrà anche preso meno peso durante la gravidanza stessa, mettendo a frutto non solo i consigli del medico, ma anche tutte le esperienze e le abitudini accumulate durante i suoi anni di “militanza” fitness. Le modificazioni tipiche della gravidanza rimangono per diverse settimane anche dopo il parto (dalla situazione ormonale al rilassamento dei tessuti fino alla frequenza cardiaca); a queste si aggiunge l’effetto della prolattina aumentata proprio per consentire l’allattamento.
Durante l’allattamento è normale che ci possa essere un dolore più o meno marcato al seno; questo, compatibilmente con il disagio che provoca sui singoli soggetti, non è di per sé un fattore che controindica l’allenamento. In molti casi è una situazione sinergica all'iperproduzione di prolattina che comporta ritenzione idrica e accentuata sudorazione. I più prudenti raccomandano di aspettare minimo tre settimane prima di riprendere (se non ci sono state problematiche come il cesareo o la necessità di particolari suturazioni che richiedono completa guarigione delle ferite, quindi anche sei settimane); in realtà dagli studi non sembrano esserci particolari controindicazioni a riprendere quasi subito l’attività fisica.
Ovviamente tenendo sempre in grande attenzione la compatibilità con l’allattamento, quindi senza indurre eccessivo stress o disidratazione o un consumo calorico non ben compensato dall’alimentazione. Durante il periodo dell’allattamento è sempre meglio allattare prima dell’attività fisica per evitare una incidenza dell’acido lattico prodotto (durante l’attività fisica) sul sapore del latte (e che potrebbe portare ad un rigurgito). 
È opportuno sottolineare bene come la ripresa dell’attività sia sostanzialmente diversa fra donne che sono da sempre abituate ad attività fisiche intense ed invece donne che decidono di avvicinarsi alla palestra per la prima volta dopo il parto. Tutto questo tenendo presente in entrambi i casi la linea guida di non avere fretta e di partire con basse intensità per crescere poi gradatamente.

lunedì 26 agosto 2013

Pilates











Il Metodo Pilates (detto anche semplicemente Pilates) è un sistema di allenamento sviluppato all'inizio del '900 da Joseph Pilates. Traendo ispirazione da antiche discipline orientali quali Yoga, (India) e Do-In, (Giappone), Pilates ha scritto almeno due libri in cui illustra il suo metodo: Return to Life through Contrology e Your Health: A Corrective System of Exercising That Revolutionizes the Entire Field of Physical Education.
Pilates ha chiamato il suo metodo Contrology, con riferimento al modo in cui il metodo incoraggia l'uso della mente per controllare i muscoli. È un programma di esercizi che si concentra sui muscoli posturali, cioè quei muscoli che aiutano a tenere il corpo bilanciato e sono essenziali a fornire supporto alla colonna vertebrale. 
Il metodo è indicato anche nel campo della rieducazione posturale. In particolare, gli esercizi di Pilates fanno acquisire consapevolezza del respiro e dell'allineamento della colonna vertebrale rinforzando i muscoli del piano profondo del tronco, molto importanti per aiutare ad alleviare e prevenire mal di schiena. Con questo metodo di allenamento non si rinforzano solo gli addominali ma si rinforzano anche le fasce muscolari più profonde vicino alla colonna e intorno alle pelvi. Il punto cardine del metodo è la tonificazione e il rinforzo del Power House, cioè tutti i muscoli connessi al tronco: l'addome, i glutei, gli adduttori e la zona lombare. Gli esercizi che si eseguono sul tappetino (Pilates Mat Work) devono essere fluidi e perfettamente eseguiti, devono inoltre essere abbinati ad una corretta respirazione.
Il metodo Pilates non ha marchio di registrazione per cui ogni insegnante di educazione fisica motoria lo può adattare al proprio stile e alla propria personalità, ma si deve rifare ai principi basilari del Pilates che sono sei:
  • la Respirazione sempre ben controllata e guidata dall'aiuto dell'insegnante come nella pratica dello Yoga (nello specifico nel Pilates si inspira nel cominciare l'esercizio e nel momento dello sforzo maggiore si espira, a differenza dello Yoga, si inspira con il naso e si espira sia con il naso che con la bocca e per ogni esercizio vi è un preciso ritmo);
  • il Baricentro, sinonimo di Power House, visto come centro di forza e di controllo di tutto il corpo;
  • la Precisione, ogni movimento deve avvicinarsi alla perfezione, un lavoro a circuito chiuso dove l'insegnante deve avere continui feedback dall'allievo;
  • la Concentrazione, massima attenzione e concentrazione in ogni esercizio, la mente deve essere il supervisore per ogni singola parte del corpo;
  • il Controllo, controllo su ogni parte del corpo, non si devono effettuare movimenti sconsiderati e trascurati;
  • la Fluidità, questo principio è la sintesi di tutti i concetti precedenti.



venerdì 23 agosto 2013

La ginnastica funzionale










La ginnastica funzionale è una disciplina basata sui tuoi obiettivi.
In funzione di ciò che ti serve, lo dice lo stesso nome, creata su di te. Essa comprende esercizi a corpo libero, a catena cinetica chiusa o aperta, esercizi specifici o generali in relazione tra loro. Functional training o ginnastica funzionale globale è la massima espressione del controllo del corpo nello spazio, è una continua ricerca di equilibrio attraverso l'uso di determinati muscoli profondi che permettono di mantenere la posizione durante gli esercizi.
E' la consapevolezza del movimento. Non è un semplice gesto quello che stai svolgendo, ma la sensazione che tu stai sentendo muovendoti nello spazio.

Perché fare ginnastica funzionale?
Si parte sempre da una motivazione fino all'ottenimento degli obiettivi.

La ginnastica funzionale è un allenamento fatto ad hoc in base alle tue esigenze.
Vengono studiati dei cicli di allenamento a seconda degli obiettivi da raggiungere e il tempo che si ha a disposizione.
Con un allenamento mirato la ginnastica funzionale è in grado di rendere la persona capace di effettuare ed affrontare qualsiasi movimento nella vita di tutti i giorni.

Cuore e Polmoni
Ossa e Tendini
Muscoli
Lavoro Cardiovascolare
L'attività cardiovascolare aiuta a smaltire il grasso in eccesso, tonifica la muscolatura senza accrescerne la massa e stimola la produzione di endorfine (benessere psicofisico).

Lavoro diaframmatico
Lavori a circuito aerobico
Consapevolezza del respiro (inspirazione ed espirazione) in sintonia con un'attività fisica. Metodo mirato per l'allenamento della muscolatura respiratoria.

Preparazione indoor e outdoor
Allenamento aerobico in studio con l'utilizzo del tapis roulant (indoor).
Preparazione alla corsa all'esterno abituando il fisico a condizioni climatiche diverse e a correre su un terreno di base non omogeneo.

Allenamento per la perdita di peso
La dieta viene fatta dal dietologo, qui potrai avere dei consigli alimentari che, abbinati a un ciclo di allenamento, ti aiuteranno ad equilibrare e tonificare il tuo organismo trovando il benessere.

Pilates

Grazie a questi esercizi viene stimolata l'attività cardiovascolare.

mercoledì 21 agosto 2013

GAG






Gambe, Addominali, Glutei.
Tre parole, tre concetti, tre obiettivi. Per chi si avvicina al fitness snellire, tonificare, rimodellare queste tre fasce muscolari sono obiettivi tra i più ambiti.
Il GAG è un sistema di allenamento specifico proprio per la parte inferiore del corpo che si basa su un principio fondamentale: lavorare in contrazione muscolare, e in serie ripetute, al fine di aumentare la soglia aerobica e spingere il muscolo a bruciare più calorie. Sebbene sia concentrato su alcuni distretti muscolari, stando anzi attenti a non coinvolgere nel movimento altri gruppi muscoli, il corso di GAG migliora la resistenza di tutto il corpo. Contribuisce anche a migliorare la nostra percezione del corpo nello spazio e lo stato di tensione dei muscoli, ovvero, ci aiuta a controllare con precisione i nostri movimenti, capacità fondamentale per aumentare al massimo l’efficacia dell’allenamento. Le lezioni di GAG sono consigliabili anche in abbinamento alla palestra, o a integrazione della ginnastica aerobica, per definire “punti critici” universali, sia per le donne che per gli uomini.

 Caratteristiche del corso:
  • adatto a chi deve snellire il punto vita, le gambe e i glutei, e bruciare i grassi superficiali;
  • indicato dopo una dieta dimagrante o dopo il parto per scolpire o rimodellare la parte inferiore del corpo;
  • le lezioni di GAG sono suggerite a chi ha problemi lievi di postura: il rafforzamento delle fasce muscolari di addominali, glutei e gambe contribuiscono a una postura migliore e ad alleviare i problemi connessi a posture scorrette;
  • il corso di GAG è utile anche per armonizzare e perfezionare un fisico già allenato.
Organizzazione del corso:
  • periodicità quadrimestrale o stagionale con lezioni da 60 minuti;
  • frequenza mono o bisettimanale (in abbinamento con Hidrogag o un altro corso Fitness).
Ogni lezione è strutturata in:
  • esercizi di riscaldamento leggero di tutto il corpo;
  • lavoro aerobico e di tonificazione a intervalli, con ripetizione di serie che interessano di volta in volta i diversi distretti muscolari di gambe, addominali e glutei;
  • defaticamento e stretching finale, per allungare e distendere i muscoli.


lunedì 19 agosto 2013

Allergie ed intolleranze






Il problema è che, al di sopra delle mode e del proliferare di test per il rilevamento di intolleranze e forme allergiche, la scienza non ha raggiunto conclusioni chiare e oggettive, né sulla classificazione e, quindi, neppure sulle metodiche per rilevarle. Alla base di tutti gli studi più accreditati nel campo delle allergie c’è la ricerca delle immunoglobuline, che sono di varie categorie (IgG, IgE ecc.). Si tratta di anticorpi che il sistema immunitario usa per combattere “aggressioni” esterne (allergeni).
Tali allergeni possono essere perfettamente innocui per la maggioranza delle persone ma scatenare reazioni in chi soffre di allergia specifica.

Le reazioni allergiche
Le classi principali di immunoglobuline sono:
  • IgG: maggiormente presenti nel siero e sono circa il 75% delle immunoglobuline circolanti. Si possono distinguere 4 sottoclassi: IgG1, IgG2, IgG3, IgG4. Le sottoclassi 1 e 3 stimolano la reazione del complemento e intervengono nella risposta immunitaria secondaria.
  • IgA: costituiscono circa il 20% delle immunoglobuline seriche (e ben il 60-70% delle totali) e sono presenti principalmente nelle secrezioni esterne, quali saliva, colostro, lacrime, muco delle vie respiratorie e del tubo digerente. Le IgA rappresentano un importante mezzo di difesa contro le infezioni locali; stimolano la reazione del complemento solo attraverso una via di attivazione alternativa e intervengono nella risposta immunitaria secondaria.
  • IgM: costituiscono circa il 5-10% delle Ig totali. Le IgM infatti costituiscono la classe di anticorpi che per prima viene sintetizzata al contatto con un nuovo antigene e sono quindi parte della risposta immunitaria primaria.
  • IgE: presenti nel siero in concentrazione bassissima, sono responsabili della risposta ai parassiti. Coinvolgono i recettori di membrana dei mastociti e dei granulociti basofili; qui le IgE, dopo combinazione con gli antigeni corrispondenti, inducono la liberazione da parte delle stesse cellule dei mediatori responsabili delle reazioni allergiche di I tipo (cioè a reazione immediata). Statisticamente le reazioni allergiche al cibo sono approssimativamente del 20% nell’orticaria acuta e 1-2% nell’orticaria cronica, si riscontrano poi circa 1/3 delle dermatiti atipiche severe nei bambini.
D’altra parte, le reazioni allergiche cutanee sono per lo più mediate da IgE (immuno globuline di tipo E), mentre le affezioni gastro interiche (dalle gastroneterite al morbo celiaco o enterocolite) sono collegate a reazioni non IgE mediate. Da punto di vista teorico è importante sapere che tutte le proteine alimentari possono fungere da fattore scatenante di allergie ma in realtà solo un piccolo gruppo di esse sembra essere responsabile della maggior parte di allergie (latte, uova, grano e soia, arachidi, pesce e molluschi).

Celiachia
A proposito di proteine, una nota importante va fatta per un particolare tipo di intolleranza che è la celiachia. La celiachia è un’intolleranza permanente al glutine, sostanza proteica presente nei cereali come ad esempio grano, avena, frumento, farro, kamut, orzo, segale. La caratteristica fondamentale di questo tipo di intolleranza è la reazione che la proteina glutine provoca alla mucosa intestinale.
Dopo l’ingestione di alimenti contenenti glutine, infatti, i villi intestinali assumono una forma molto appiattita e di conseguenza il passaggio delle sostanze nutritive viene modificato producendo un malassorbimento con grosse problematiche gastrointestinali.

Le reazioni non allergiche
È da sottolineare come tutto quanto detto sullo studio delle reazioni IgE mediate è convalidato e dimostrato per le Allergie. La situazione cambia notevolmente parlando di intolleranze, o meglio, quelle che vengono definite reazioni non allergiche, definizione data nel 1991 dall’allergologo Kaplan (c’è una reazione ma non collegabile ai canali diagnostici delle allergie cioè le Immunoglobuline E). Ecco perché in questo settore si ha ancora un concetto controverso.I sintomi sono molto sfumati. Nelle intolleranze, solitamente, i sintomi non sono proporzionali alla quantità dell’alimento non tollerato introdotto, non sono dose-dipendenti e anche piccole quantità possono mantenere l’intolleranza. Sono inoltre frequenti le reazioni trasversali fra alimenti della stessa famiglia o gruppo biologico (assumere alimenti collaterali vuol dire mantenere l’intolleranza). Accanto a questo, chi si occupa di intolleranze sottolinea come si possano avere disturbi di assuefazione, dipendenza e relativa astinenza in caso di sospensione.Mediamente, sono definite intolleranze alimentari quelle sindromi in cui anche se si è dimostrato un rapporto tra l’insorgenza dei sintomi e l’assunzione dell’alimento, non è dimostrata una reazione immunologica. Le intolleranze alimentari sono una reazione cronica ad alimenti assunti frequentemente, il disturbo che provocano non è in relazione diretta all’assunzione, ma può avvenire a distanza di tempo, anche fino a 72 ore dopo, con sintomi a carico di qualsiasi organo, apparato o sistema.

Tipi di intolleranza
In questo complesso mondo, secondo il prof Lazzari si possono individuare le seguenti intolleranze: – ENZIMATICHE–METABOLICHE–FISIOLOGICHE, fra queste il favismo, intolleranza alle fibre, al latte ecc. – FARMACOLOGICHE, per esempio salicilati, tiramina, glutammato. La Tiratina è presente nel cioccolato, vino rosso, lievito di birra e molti formaggi. Oppure ci può essere una sensibilità all’istamina che è presente in tonno, salmone, pomodoro, cibi in scatola. Abbiamo poi possibili interferenze PSICOLOGICHE o addirittura INDEFINITE, cioè legate alla presenza di additivi o comunque a meccanismi non sempre noti.

I test
È facile intuire come, in un contesto così variegato, la confusione sia tanta ed ancora di più perché i test utilizzati sono numerosi. Per le allergie esistono procedure ormai da decenni validate ma sono tutte principalmente basate sul rivelare situazioni “IGE mediate”, fra questi i più diffusi sono il RAST, il PRIST, il PRICK, il DBPCFC. Ci sono poi test usati anche per le intolleranze, alcuni dei quali godono di accettabili basi fisiologiche ed alcune evidenze scientifiche; fra questi citiamo l’IgG, l’IgG4 ed il Citotossico. 
Quelli molto diffusi, ma dalla minore “accettazione” del mondo medico, sono il Vegatest, il DRIA ed il test Kinesiologico. Quest’ultimo si propone di individuare allergie/intolleranze testando la forza muscolare mentre il soggetto tiene una fiala con il principio attivo della sostanza in mano. Diversi articoli hanno negato la ripetibilità inter tester di questa metodica; vi è un unico lavoro del 1998 che dimostra una certa validità di questa metodica. Il DRIA tenta di rendere più oggettive le modifiche e quindi di superare i limiti del test kinesiologico. Per farlo utilizza una cella di carico per misurare la forza (solitamente quadricipite). Il calo di forza deve avvenire entro 4 secondi dalla somministrazione sublinguale della sostanza. Nonostante il quadro più oggettivo, non ci sono studi scientifici che validino completamente questa metodica. 
Il VEGATEST è invece una metodica di tipo “elettrodiagnostico”. Si tratta di un circuito dove si misurano le modifiche della resistenza cutanea del soggetto in presenza dei principi attivi della sostanza da testare. Anche per questa metodica non ci sono molti studi che ne accreditino la validità. A onore di cronaca, occorre riportare che in molti casi i soggetti che si attengono alle indicazioni di questi test ottengono dei benefici.Le motivazioni possono essere diverse ma, essendo in un campo a nostro avviso ancora tutto da esplorare, occorre tenere conto delle osservazioni e delle valutazioni che i soggetti segnalano; che poi queste osservazioni possano avere una forte influenza psicologica non toglie che il soggetto possa avere tratto beneficio dall’applicazione delle indicazioni. Certamente la ricerca di intolleranze effettuate tramite prelievo ematico dà un senso più scientifico al test. Uno dei primi è stato il test CITOTOSSICO nelle sue varie versioni (ALITEST, ALCAT test ecc). Sostanzialmente questi test misurano le modifiche del diametro dei leucociti dopo un contatto con le sostanze che si desiderano testare. Il grado di deformazione può andare da 0 a 4 (nel grado 4 si arriva anche alla rottura del leucocita). Ci sono inoltre varie osservazioni sulla forma con cui il principio attivo viene messo a contatto con il leucocita. Chi si occupa di intolleranze usando questo test è solito considerare intolleranze quelle di grado 3 o 4 mentre sono certamente meno indicative quelle di grado 1 o 2.Un metodo ben misurabile e ripetibile si ha con la misurazione sul sangue di IgG e IgG4; questo tipo di test rappresenta una delle ultime applicazioni. Si è diffuso l’uso di testare le IgG e IgG4 nonostante il fatto che normalmente si producono IgG e IgG4 con il consumo di cibo senza manifestare sintomi.I sintomi più comuni collegabili sono: fatica cronica, congestione nasale, cefalea, iperattività, sindrome dell’intestino irritabile, artrite, ecc. Nonostante alcuni autori neghino ogni fondatezza a questa metodica, vi sono alcuni studi che dimostrano come l’eliminazione di cibi valutati con IgG portino ad un miglioramento della sintomatologia.Come è possibile vedere, le intolleranze appaiono un “mistero” dove sembra quasi un “atto di fede” quello di attenersi o meno alle indicazioni che ne emergono. In linea di massima riteniamo comunque scorretto approcciare un regime alimentare che sottragga troppi alimenti e soprattutto per lunghi periodi. Va inoltre sottolineato come, anche i più convinti delle intolleranze, decretino che dopo un periodo più o meno lungo occorra fare una “reintroduzione” e riallenare il corpo alla presenza di quel determinato alimento.



martedì 13 agosto 2013

Stretching


L’obiettivo principale dello stiramento muscolare è il miglioramento e il mantenimento della mobilità articolare, per cui deve essere utilizzato principalmente per questo scopo e con metodiche pratiche che permettano di ottenere questo effetto. È fondamentale che il risultato ottenuto sia a lungo termine ed è per questo che, chi si occupa di consulenza, preparazione atletica o fitness, e consiglia questo tipo di attività, deve farlo finalizzato ad un obiettivo ben specifico in relazione alla persona alla quale viene prescritto.



Le forme dello stretching
Lo stretching viene effettuato e proposto in varie forme: dal classico stretching di Bob Anderson, passando per lo stretching globale attivo e lo stretching balistico utilizzato negli sport di combattimento, finendo con altre tecniche legate anch’esse all’allungamento muscolare quali lo yoga o altre ginnastiche posturali specifiche come PANCAFIT® o Pilates. Tutte queste tecniche sono utilissime per contrastare l’irrigidimento muscolare causato da scorrette posture, da eccessivi carichi muscolari o da croniche posizioni statiche che possono retrarre le catene cinetiche portando a problematiche muscolari e osteoarticolari. Le strutture coinvolte a livello fisiologico nello stretching sono: il tessuto connettivo (tendini, congiunzione osso – tendine, congiunzione muscolo – tendine, elementi elastici in parallelo e strutture muscolari, elementi propriocettivi) e gli elementi elastici del sarcomero (actina, miosina, titina). Sottoponendo a stiramento il sistema tendine-muscolo viene prima di tutto sollecitata la parte muscolare a livello dei ponti actino-miosina e degli elementi elastici del sarcomero, mentre il tessuto connettivo e i tendini sono coinvolti dagli allungamenti di grande ampiezza. 
È un dato ormai accertato che lo stretching, in tutte le sue forme, è indispensabile e va quindi praticato e consigliato a tutti, dallo sportivo alla persona sedentaria. Esso ha rappresentato e rappresenta tutt’ora un progresso per diverse fasi della preparazione atletica ma è giusto chiedersi se le credenze popolari che lo riguardano e gli usuali metodi di applicazione siano sempre confermati da studi scientifici oppure, in qualche caso, ci si debba ricredere su qualche suo utilizzo. Penso che la curiosità e il trovare risposte ai quesiti che possono venirci in mente, mentre seguiamo un atleta o uno sportivo, siano la linfa per far bene il nostro lavoro di consulenza.



Alcuni studi controcorrente
Ora andiamo a vedere, a titolo divulgativo, anche l’altra faccia della medaglia attraverso una serie di studi di ricercatori che osservano in specifico alcune applicazioni dello stretching. Alcuni ricercatori, come Mastèrovoi, motivati da credenze classiche, sostengono che praticare lo stretching prima dell’attività fisica comporta, con l’alternanza di contrazioni concentriche contro resistenza, l’innalzamento della temperatura dei muscoli stirati invece altri autori (Wiemann, Klee) ne hanno dimostrato la scarsa efficacia. Anche Alter, su Science of flexibility, ha dimostrato che gli stiramenti provocano nel muscolo delle tensioni che interrompono l’irrorazione sanguigna, cioè esattamente il contrario dell’effetto voluto e creduto. Secondo alcuni studi scientifici, lo stretching prima dell’attività fisica comporta un miglioramento della performance; al contrario, Shier, in una rewiew del 2004 ha affermato che lo stretching nella fase di riscaldamento influenzerebbe negativamente la prestazione atletica, soprattutto quelle di elevazione e quelle di forza. È convinzione comune che lo stretching eseguito prima dell’attività fisica prevenga gli infortuni muscolari, ma non sempre è vero. Infatti, alcuni autori citano i benefici dello stretching prima dell’attività fisica negli sport con stimoli eccentrici perché si può migliorare la viscosità tendinea, oppure nelle attività con ampiezze estreme come la ginnastica artistica o simili. Altri, soprattutto negli sport come la corsa, sostengono che lo stretching non migliori gli esiti di infortuni muscolari. Van Mechelen e coll. in uno studio del 1993 ha esaminato per sedici settimane, su una popolazione di 320 podisti, gli effetti del riscaldamento con esercizi di allungamento e di un lavoro di defaticamento. Il gruppo di controllo che non aveva effettuato il riscaldamento, gli stiramenti e il defaticamento ha subito meno incidenti muscolari rispetto al gruppo sperimentale. Anche Lally ha dimostrato, su seicento soggetti maratoneti, che il numero di incidenti risultava superiore del 35% nel gruppo che aveva utilizzato lo stretching prima dello sforzo fisico.


È noto, e anche alcuni studi scientifici ne parlano, che lo stretching è necessario e ottimale per migliorare il recupero; quest’ultimo è influenzato dall’irrorazione sanguigna e quindi, per un miglior recupero, si dovrebbe aumentare il drenaggio e il flusso della circolazione periferica ma, come già precedentemente citato, alcuni studi ne dimostrano una diminuzione per compressione del flusso. Dorado e Coll. in uno studio del 2004 hanno valutato il recupero rispetto a quattro lavori muscolari condotti ad alta intensità, e poi sono state comparate tre modalità di recupero: riposo, stretching e recupero attivo al 20%VO2 max. Solamente il gruppo con il recupero attivo ha migliorato le proprie performance e quindi se ne deduce che gli stiramenti non costituiscono il miglior modo per facilitare il drenaggio.Alcuni autori hanno valutato gli effetti dello stretching post work out per la prevenzione degli indolenzimenti muscolari. È noto a tutti gli sportivi che dopo sedute di allenamento intenso si possono avere indolenzimenti muscolari, solitamente ritardati di 48 o 72 ore. Broker e Schwane, in uno studio datato, hanno valutato dopo un allenamento eccentrico del quadricipite e del tricipite surale gli stiramenti statici ma non hanno constatato nessuna attenuazione dei dolori nei tre giorni successivi rispetto agli altri gruppi di controllo. Lo stretching durante l’attività fisica ha portato a risultati contraddittori. Wiemann e altri hanno utilizzato durante sedute di potenziamento muscolare alcuni esercizi di stiramento a carico di una sola gamba; l’arto stirato risultò essere più indolenzito dell’arto di controllo. Lo stiramento, in questo caso, aggiunge microtraumi a quelli già presenti per via dello sforzo fisico.

Un uso consapevole dello stretching
Dopo questa carrellata di studi scientifici che mettono in discussione le usuali credenze applicate nello sport a tutti i livelli penso che, prima di adottare lo stretching sempre e comunque, dobbiamo porci alcuni quesiti, in relazione a quanto evidenziato ma soprattutto in relazione al nostro obiettivo: questi studi identificano comunque un effetto positivo dello stiramento in alcune discipline sportive mirate, oppure in determinati momenti della fase di preparazione e quindi lo stretching è comunque positivo. Ad esempio, è possibile collocare una seduta di stiramento muscolare al termine di un allenamento non considerandola una fase di recupero ma una parte attiva di carico del programma. Oppure, si può inserire una seduta di stretching come seduta di allenamento con la finalità di migliorare l’ampiezza articolare, conoscendo le conseguenze che comporta e quindi posizionandola all’interno del carico di lavoro, lontano dalla competizione. Penso che lo stretching rivesta una grande importanza nell’attività fisica e nella preparazione atletica
ed esiste ampia letteratura a riprova del fatto che lo stretching possa aiutare a mantenere le ampiezze articolari e contrastare le retrazioni muscolari; è quindi giusto farne uso poiché dà grandi risultati per il mantenimento della postura e dell’ampiezza muscolare, messa a dura prova dagli allenamenti e dagli stress muscolari, ma bisogna essere consapevoli delle due facce della medaglia per poterlo utilizzare ancora meglio. Come abbiamo visto, è facile trovare in letteratura scientifica cose a favore di una pratica e cose contrarie alla stessa identica pratica. “Tutto è il contrario di tutto”. Si tratta a questo punto di sapere bene quali sono i nostri obiettivi, essere a conoscenza degli strumenti per poterli ottenere e ricercare la strada giusta per massimizzarne gli effetti. “Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta” PLATONE.

lunedì 12 agosto 2013

Sport e lavoro


Ritagliarsi le 2-3 sedute settimanali si può! Con molta dedizione, costanza, conoscenza dei propri mezzi psicofisici,organizzazione del proprio tempo libero ed una collaborazione con un serio professionista del motorio. Insieme si trovano le soluzioni ideali per creare una miscela di attività fisiche e di recupero (stretching, attività aerobica all’aria aperta, in palestra, sedute massofisioterapiche di recupero muscolare, ecc.) a seconda del periodo e/o della disponibilità di orario e/o di attrezzature (ad esempio hotel con palestra o piscina, possibilità di personal trainer nella zona dove si alloggia, palestra in casa e/o ufficio ecc. ). La durata della seduta può variare a seconda della disponibilità del cliente, della situazione, ed in linea di massima si può racchiudere nel range che va dai 30 fino ai 45 minuti. Per ottenere dei risultati con durate inferiori, come ad esempio stando sui 20’ di lavoro, bisogna aumentare l’intensità della seduta, cosa molto in voga negli ultimi tempi utilizzando ad esempio il kettlebell. Ora, per capire il motivo di questo ulteriore lavoro fisico da aggiungere nella propria vita, apro una parentesi e riporto una citazione di Guido Giugni da “Il corpo e il movimento nel processo educativo della persona” (ed. SEI 1986), per quanto riguarda la definizione di tempo libero e del perché, come in questo caso, non deve essere fatto in modo disorganizzato e noioso: “…il tempo libero dal lavoro […] viene considerato non soltanto tempo di riposo, ma anche di attività liberamente scelte: tempo, quindi, di piacere e di compensazioni gratificanti. In esso il lavoratore recupera la propria esistenza, liberandosi dell’incubo di una vita condotta all’insegna dell’ansia, della ripetizione, dell’anonimato…”. Da qui una semplice domanda: chi nella propria vita non dispone di circa 2 ore a settimana da dedicare al proprio fisico ed evitare le problematiche eventuali indicate da Giugni? Inoltre, se utilizziamo il tempo dedicato ai pasti in modo sano ed equilibrato, evitando il famoso detto inglese preso dall’ambiente informatico “garbage in garbage out” (in sostanza se ingeriamo cibo spazzatura diventiamo spazzatura…), come per magia riusciamo ad incrementare le ore dedicate a noi e al nostro benessere nell’arco della settimana.
Per far ciò, ripeto, ci vuole molta costanza e attitudine ma vedrete che passato il periodo di adeguamento (di solito una ventina di giorni) non si potrà più fare a meno del proprio protocollo di lavoro fisico settimanale. Come mi piace dire: “Si prende il gran bel vizio di allenarsi!”. Manager di alto livello dichiarano che, dopo la loro corsa aerobica mattutina, gli impegni di giornata successivi cambiano prospettiva. A loro volta altri professionisti dichiarano che molte decisioni riescono a maturarle mentre fanno allenamento pesi o sedute di meditazione giornaliere. Per conciliare lavoro ed attività fisica ci vuole l’organizzazione del tempo, riducendo i tempi di applicazione dell’esercizio ed aumentando con gradualità l’intensità. Per risolvere questo problema ci sono degli step da fare per arrivare all’obiettivo. Per prima cosa, svolgere un doveroso check up medico così da poter lavorare in sicurezza, conoscendo il proprio stato di fitness. Successivamente, svolgere un’anamnesi per vedere qual è la condizione di partenza (peso corporeo, massa grassa, valutazione della flessibilità muscolare ad esempio) e gli obiettivi che si vogliono raggiungere. Questi ultimi devono essere formulati, per essere raggiunti, a breve termine (3-4 settimane circa) e soprattutto realistici, quindi senza richieste del tipo: “Voglio perdere 15 kg in 10 giorni!”. Un ulteriore importante passo è quello di scegliere quali attività sono più gradite insieme ad un serio professionista motorio, possibilmente in possesso di laurea in scienze dello sport o preventivo rieducative e con corsi di aggiornamento certificati. Si programmano le sedute ed i momenti appropriati per svolgerle, così da poter massimizzare il tempo dedicato all’attività senza che la stessa diventi stressante e controproducente. A questo punto, è importante inserire nell’arco della settimana 2-3 momenti della durata di 30’-45’ minuti dove è possibile inserire il lavoro fisico programmato. Naturalmente si trova avvantaggiato chi ha una sede fissa lavorativa quindi può svolgere l’attività nella palestra in ufficio o in casa, nel centro fitness vicino alla sede di lavoro, ma con qualche adeguamento e strategia si può trovare la soluzione anche per chi è sempre in “giro” studiando il territorio dove si alloggerà o si transiterà. Come molti di voi avranno capito, è un lavoro di organizzazione certosina come preparare un meeting o un colloquio d’affari. Non voglio dimenticare anche il fatto che, ad esempio, utilizzare la bicicletta per andare al lavoro quando è possibile ed evitare di utilizzare l’ascensore per salire e per scendere (quando il numero di piani lo permette, si intende!), può essere di aiuto per mantenere il corpo in movimento in modo naturale e senza particolari utilizzi di attrezzature. Ricordo che se percorrerete, camminando, un chilometro e mezzo al giorno (in una sola volta) tutti i giorni, senza aumentare l’assunzione di calorie, perderete 4-5 chili in un anno (Bob Anderson, 1980). Essendo l’attività fisica molto personalizzata nel caso del target indicato, vi illustro comunque un paio di “mini tabelle” da svolgere ovunque, sia a corpo libero sia con l’utilizzo di piccoli attrezzi che si possono trasportare comodamente. Per chi non è “condizionato”, questi esercizi porteranno ad intensità tali da chiedervi chi ve l’ha fatto fare…. Ricordo che questi semplici protocolli sono e devono essere presi solo per pura indicazione e per aiutarvi a capire che: “Se vuoi puoi!”.


Due modelli di allenamento esemplificativi
Durata: 10’ oppure 100 ripetizioni per ogni esercizio
Uomini: Piegamenti sulle braccia + addominali (sit-up) + squat
Donne: Squat + addominali (sit-up) + piegamenti sulle braccia (anche con appoggio sulle ginocchia).
Svolgimento: si parte con il primo degli esercizi in programma eseguendo e contando il numero di ripetizioni; si passa al secondo esercizio con lo stesso numero di ripetizioni del precedente e successivamente al terzo con la stessa modalità; si riprendere dal primo esercizio di nuovo senza pausa. Si continua fino ad arrivare alla durata di tempo prestabilita (10’ contando le ripetizioni svolte) oppure al numero in oggetto cioè 100 ripetizioni per ogni esercizio. Obiettivo finale: fare 300 ripetizioni (100+100+100) entro i 10’!

Durata: circa 20’
Materiale utile:
  • 1 Kettlebell da 12 kg per gli uomini, da 8 kg per le donne;
  • 1 corda da salto (oppure una salita di circa 30-40 metri non troppo ripida 10-15% di pendenza o almeno una cinquantina di scalini).
Svolgimento: 20 swing con kettlebell + 2’ di corda o salita/scalini camminando rapidamente o facendo jogging, il tutto ripetuto per 7-8 volte senza recupero.


mercoledì 7 agosto 2013

Acai



L’Açai (si pronuncia assaì) è il frutto dell’açaizero, una palma fruttifera della famiglia dell’Euterpe Oleracea, che cresce spontaneamente nella zona nord della foresta amazzonica, in terreno fertile laddove l’acqua è più abbondante.Questa palma può raggiungere un’altezza di circa 25 metri, cresce solo in alcuni stati del Brasile, nel nord ed in particolare negli stati del Parà e del Amapà.

Caratteristiche del frutto di Açai
Il frutto matura fra luglio e dicembre ed è una grossa bacca color porpora scuro, di forma sferica, del peso medio di un grammo e il cui nocciolo occupa quasi l’80% del frutto. La polpa ha una consistenza granulosa. Le bacche di açaì pendono dai rami delle palme e tradizionalmente si raccolgono a mano: gli uomini della tribù si arrampicano sull’albero e tagliano i rami nella parte superiore della pianta. Ma le proprietà naturali dell’acai restano attive solo per 24 ore dopo la raccolta: le bacche devono dunque essere caricate in ceste e trasportate subito dopo il loro raccolto, durante la notte, in maniera che i mercati di Belem abbiano i prodotti la mattina seguente. Ogni palma di açaì produce circa 20 kg di frutti all’anno ed il succo prodotto da questi frutti è diventato il prodotto economicamente più importante dopo il legno. Belem, in Brasile, impiega più di 30.000 persone nella produzione, raccolta e vendita dell’Acai. Per centinaia di anni le bacche di Acai sono state un alimento tradizionale dei popoli indigeni del Rio degli Amazzoni, tanto da diventare parte della loro tradizione folkloristica, trovando strada nella leggenda così come nella tradizione culinaria. Anche se crescono in terreni che distano migliaia di chilometri da Rio de Janeiro, è stato proprio qui che le bacche hanno guadagnato per prima la loro fama di super alimento e la stima di migliaia di persone. Le bacche di Acai vengono portate in città negli anni ’70-80 dai brasiliani del nord trasferiti a Rio. Le Bacche di Acai hanno iniziato ad essere largamente consumate dai cariocas (abitanti nativi di Rio) come fonte naturale di energia quotidiana. I media di tutto il mondo ne parlano già da qualche tempo, sostenendo che nonostante le piccole dimensioni, le bacche di Acai hanno un’enorme varietà di valori nutrizionali come pochi altri frutti al mondo e visto la grande risonanza che è stata data alle eccezionali proprietà di questo frutto e le conseguenti grandi richieste del mercato, le coltivazioni si sono estese anche in molte regioni del Sudamerica. 
Si consumano sotto forma di barrette, di perle, capsule, succhi o bevande. Si producono anche preparati cosmetici. Tutto ciò ha fatto sì che il mondo dell’integrazione le proponesse come una specie di superfrutto utile in varie situazioni (secondo alcuni funzionerebbe infatti oltre che come antiossidante, anche come energizzante, come coadiuvante per il dimagrimento, come ipocolesterolemizzante, per la prevenzione e il contrasto del cancro e delle malattie su base infiammatoria, autoimmune ed allergica, come protezione dal colesterolo in eccesso e dalle malattie cardiovascolari e tanto altro).

Quanto c'è di vero
Dal Dipartimento di Scienze degli Alimenti e Nutrizione Umana dell’Università della Florida (USA), l’Acai è riconosciuto come un alimento interessante per l’utilizzo in prodotti nutraceutici grazie alle numerose proprietà funzionali che possiede. Ma vediamo di analizzare i reali benefici che possiede la bacca di Acai e ciò che invece è da ridimensionare, perché esasperato a causa di semplici fini pubblicitari e di marketing. Se si considerano i valori nutrizionali, si può apprezzare l’alto contenuto in antocianine – antiossidanti tipici della frutta con tonalità rosso scure, blu e nere, come uva e mirtillo – che hanno un effetto protettivo sul micro e macrocircolo (utili in presenza di fragilità capillare e relative manifestazioni). Proprio come nell’uva, le antocianidine, i relativi glicosidi e gli altri polifenoli, si concentrano nella buccia, raggiungendo concentrazioni superiori a quelle dei frutti di bosco. Ma, in ogni caso, il potere antiossidante complessivo è paragonabile a quello di altri frutti noti da tempo per le stesse proprietà, tanto che per uno studio americano del 2008, il valore antiossidante del succo di Acai risulta inferiore a quello del succo di melograno, del vino rosso, del mirtillo, anche se superiore a quello dei succhi di arancia, mela e del tè freddo. Le bacche di Acai possiedono discrete, ma non certo eccezionali, percentuali di calcio, ferro e vitamine A e C, oltre che una massiccia presenza di fibre e fitosteroli. È presente il Resveratrolo, un fenolo non flavonoide contenuto principalmente nella buccia dell’acino d’uva, a cui è attribuita una probabile azione antitumorale, antiinfiammatoria e di fludificazione del sangue, ma in concentrazioni molto basse, mentre è buono il contenuto proteico e lipidico, con prevalenza di acidi grassi monoinsaturi (acido oleico – 54% c.a) e discrete percentuali di polinsaturi (principalmente acido linoleico 12.5% c.a.) e di uno degli acidi grassi più aterogeni, l’acido palmitico (26.7% c.a.). Si può concludere che prima di decantare eccezionali e portentose le qualità di questo frutto, la prudenza è d’obbligo: gli attuali studi scientifici che riguardano l’Acai lo classificano sicuramente come un ottimo antiossidante, ma altri frutti più comuni e più facilmente reperibili hanno altrettante e ugualmente ottime caratteristiche in tal senso. Il suo consumo è certamente da raccomandare, ma senza esasperarne virtù e decantare proprietà inesistenti.